Racconto scritto da Roberto dieci anni dopo il viaggio e letto in diretta durante la trasmissione di Radio 24 "Voi siete qui", nell'ambito di un concorso.

"Non vedevo l'ora di partire...e di ritornare": lo diceva il protagonista di un romanzo di Carmine Abate che stavo leggendo nel 2003. Era l'anno della tesi di laurea; una nuova fase della vita mi attendeva al varco, con molte incognite e nessuna certezza. Durante quei mesi, le stesse espressioni mi frullavano in testa di continuo: "Partire...tornare...partire...tornare". Anche io, infatti, non vedevo l'ora.

Ecco quindi come, alcuni mesi dopo la laurea, partii: presi una bicicletta, vi attaccai un portapacchi, agganciai al portapacchi dodici chili di bagaglio, e cominciai a pedalare. Destinazione Vladivostok, ultimo avamposto russo sul mar del Giappone, raggiunta in centosei giorni e diecimila km.

Ed ecco, invece, in che modo tornai da Vladivostok: convinsi una fredda impiegata della ferrovia Transiberiana che una bicicletta era un bagaglio come un altro e salii sul treno. Nel giro di quindici giorni avrei rivisto casa.

Il tempo, sdraiato su una cuccetta di terza classe, con l'aria viziata ed un monotono paesaggio all'esterno, scorreva molto stancamente. Talvolta, pero', capitava che la via ferrata incrociasse strade su cui ero transitato in bici durante il viaggio d'andata. Provavo allora a ricordare: "Li' e' dove mi sono fermato a chiacchierare con un bambino, li' pioveva, in quel chiosco ho mangiato zuppa di cavolo e barbabietole". Verso i monti Urali, riconobbi l'edificio in cui trascorsi una notte due mesi prima: richiamai alla mente l'episodio. Era l'inizio di maggio: davanti a me, un interminabile rettilineo di saliscendi tagliava a meta' i versanti dei colli ancora innevati. Raffiche gelide arrivavano da nord, soffiando violentemente in direzione opposta alla mia. La zona era quasi deserta, pochissime auto di passaggio ed il primo villaggio cinquanta chilometri piu' avanti. Una distanza proibitiva, poiche', pedalando controvento, stentavo a toccare la velocita' media dei quattordici orari. L'oscurita' incombeva e si concretizzava l'ipotesi della notte all'addiaccio: malaugurata, dopo un'intera estenuante giornata in sella ed in quelle condizioni climatiche.

Ormai rassegnato all'idea, vidi alla sinistra un edificio; frenai e provai a bussare. Qualcuno apri': "Ho bisogno di un posto per dormire" - dissi, imitando i modi asciutti e privi di cerimonie dei russi. Mi fece entrare. L'atrio era una grande stanza completamente vuota; vi poggiai la bici. Oltre, saliti due-tre scalini, la penombra del crepuscolo lasciava intravedere una mensola con qualche stoviglia, un lavandino, un tavolo, delle sedie ed un paio di vecchi divani. Nessuna lampadina: l'unica luce artificiale arrivava dalla stufa a legna. Il russo, un giovane ben piantato sulla trentina, fece cenno di sedermi al tavolo; mise a bollire dell'acqua e vi verso' da una busta un preparato per minestrone. Mangiammo uno di fronte l'altro, illuminati a malapena dalle fiamme che ardevano alle mie spalle e scambiando pochissime battute: in quella situazione surreale, non v'era posto per convenevoli e curiosita'.

Poco dopo, ricevetti una coperta e mi sdraiai su un divano; altrettanto fece il giovane. Fuori era ormai buio pesto, cosi' il fuoco proiettava alle pareti enormi ombre dai movimenti imprevedibili e minacciosi. Scivolai in un sonno leggero. Un paio di volte, l'ospite si alzo' piano: "Ora - sussultavo nel dormiveglia - va a frugare nelle mie borse". Invece no, era soltanto per ravvivare il focolare. Al mattino, i raggi del sole scalzarono le ombre; ci destammo entrambi. Il samovar bolli' l'acqua per il te' mentre la stufa scaldava alcune fette di pane scuro. Subito dopo la frugale colazione, varcai l'uscio e mi rimisi in sella. "Spasiba balscioie, gospadin - molte grazie, signore", mi accomiatai porgendo la mano ed osservando fugacemente il viso dell'uomo, che abbozzo' un sorriso. Ripresi il medesimo interminabile rettilineo del giorno prima; Vladivostok era ancora lontana.

Furono solo brevi istanti, poi la carovana di vagoni sfreccio' via. Un episodio tra tanti vissuti in quel viaggio; eppure capii che, per qualche strano meccanismo della memoria, era gia' una pietra miliare tra i miei ricordi. Osservando il paesaggio fuori dalla carrozza, mi parve quasi di veder davvero un ragazzo pedalare verso l'est asiatico. Mi venne in mente una frase del "Buffalo Bill" di Francesco De Gregori: "Vent'anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi piu'". Guardai avanti attraverso il vetro del finestrino: si avvicinavano le prime stazioni europee. Poi di nuovo indietro: pił nessuna traccia dell'edificio, ne' dello schivo abitatore, della strada e del ciclista. Con essi, inghiottiti a oriente dall'orizzonte, scomparvero per sempre anche i miei vent'anni.